Spazio vissuto
Il paese ha forma quasi circolare con centro sulla sommità di una collina, un prolungamento a sud lungo la via San Nicola ed una zona bassa, dove a partire dal decennio successivo alla seconda guerra mondiale si è sviluppata la zona denominata oggi “Katundi i ri”. Un unica strada principale, Udhë e Rea, attraversa il paese. A partire da questa ogni breve tratto di strada cede quasi sempre lo spazio a caratteristici slarghi o a vere e proprie piazzette circoscrivendo e denominando la zona cosi come vuole la toponomastica arbëreshe. Si tratta di toponimi tradizionali che la perpetuazione orale ha tramandato fino ad oggi: ka Kriqëzit, ka Lloxhëzit, ka Kallvari, ka Shën Kolli, ka Kroi i Vjeter, ka Voshku Kroit, ka Udhë e Rea, ka Qisha, ka Rahji, ka Sheshi Kumënit, ka Katundi i ri, ka Mendullet o di toponimi che richiamano alla memoria i luoghi della terra d’origine: Shën Kolli, Udha Skanderbeg, Udha Shqipëria,...
Il centro storico di Vaccarizzo Albanese si è sviluppato tutto attorno alla Chiesa, allorché i gruppi di Albanesi qui rifugiatisi, decisero di stabilirsi definitivamente. Attorno alla chiesa, anche, i vari palazzotti signorili, il notevole numero dei quali testimonia l’inesistenza in paese di un accentrato potere nelle mani di un solo signore. Per quando riguarda l’architettura, i palazzotti più antichi, hanno una tipologia piuttosto semplice, per lo più a pianta quadrangolare, vi si accede attraverso un portale in pietra che da su un attico a cielo aperto, tipiche sono le finestrelle ovali dell’ultimo piano ed, esternamente, gli angoli smussati per favorire, un tempo, il passaggio di animali da soma.
Attorno ai palazzotti le cosiddette “terrana” o case con scala esterna, costruzioni che un tempo ospitavano le famiglie alle dipendenze dei vari signorotti. Queste case erano costituite da una sola stanza a pian terreno, o tutto al più da una stanza sopraelevata cui si accedeva tramite una scala esterna. All’interno attorno al focolare si svolgeva la vita quotidiana, specie nelle giornate invernali.
Durante la bella stagione le attività si svolgevano all’aperto, pertanto, ogni abitazione aveva, accanto alla porta, il forno e la panca in pietra, che consentivano alle donne di poter lavorare, stare assieme ed aiutarsi l’un l’altra. Ogni donna arbëreshe, infatti, insegnava ciò che sapeva non solo alle proprie figlie ma anche a quelle delle famiglie del vicinato. Questa struttura architettonica, tuttora ben visibile, che un tempo legava i membri di una stessa gjitonia, soprattutto le donne, racchiude un piccolo nucleo di case che condivide uno spazio comune, il quale si frappone fra il pubblico e il privato e rappresenta, ancora oggi, lo spazio in cui il singolo intraprende relazioni di cooperazione, sociale ed economica, con l’intero gruppo extra-familiare.
Testo a cura di Bina Martino e Silvia Tocci
Sportello linguistico comunale (L.482/99 ann. 2003)